Patrizio Di Massimo
Fuga dal disordine, 2010
Flight from disorder, 2010
Performance inside Villa Necchi Campiglio
Actor: Alfredo Onifretti
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Exhibited at: ‘Low Decò’, Villa Necchi Campiglio, Milano, 2010
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A performance inside Villa Necchi Campiglio, Milan, in which an actor guides visitors on an expedition into the building. With his speech he interweaves the stories of Marcherita Sarfatti and Italo Balbo expressing thoughts on the meaning of ‘Return to the Order’ in the arts. Text written by the artist. / Una performance dentro Villa Necchi Campiglio, Milano, dove un attore guida i visitatori in una spedizione tra gli edifici. Con il suo discorso intreccia le storie di Marcherita Sarfatti e Italo Balbo esprimendo pensieri sul significato di ‘Ritorno all’ordine’ nelle arti. Il testo è scritto dall’artista.
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TESTO DELLA PERFORMANCE (Scroll down for English):
Fuga dal disordine
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Patrizio Di Massimo
LE STORIE CHE VERRANNO NARRATE DURANTE QUESTA VISITA GUIDATA SONO BASATE SU UNA LIBERA INTERPRETAZIONE DEI FATTI.
Ingresso della villa
Ora accadde che un gruppo di artisti amici discutesse un giorno, in Milano, dell’arte italiana e delle sue tradizioni. Fra questi artisti uno si attardò a spiegare lungamente il carattere inconfondibile dell’arte plastica italiana nei secoli: nel Quattrocento, nel Cinquecento, nel Seicento:
“Nomi intraducibili, come la fisionomia dei nostri più intimi e cari, non sono cifre soltanto aritmetiche, non sono termini vaghi, che designano un’epoca composta di 100 anni, ma concretano una realtà tangibile nel tempo e nello spazio. Non vi è ascoltatore distratto, che all’udirle non evochi una visione storica sfolgorante e completa, per quanto riguarda la vita dello spirito e del pensiero, ancor più che delle vicende politiche. E, nella vita spirituale, l’evocazione contempla specialmente la vita dell’arte, e, in modo particolare, la creazione plastica.”
Disse allora un altro, a questo proposito, in quel cerchio di amici: “Il nostro secolo sento che vedrà ancora il primato della pittura italiana. Sento che ancora si dirà, nel mondo e nel tempo: Novecento italiano.”
Per questo piacque molto ai giovani artisti di avanguardia, molti dei quali erano stati soldati e continuavano ad esserlo nel Fascismo, militi di punta dell’Italia. Così sorse in Milano il gruppo del “Novecento Italiano”, con quel nome come parola d’ordine. Gli si rimproverò persino di aver voluto ipotecare tutto per sé un secolo nuovo, appena cominciato. In realtà, quegli artisti volevano soltanto proclamarsi italiani, tradizionalisti, moderni. Affermavano fieramente di voler fermare nel tempo qualche aspetto nuovo della tradizione.
Di fronte a: Bozzetto per il manifesto della prima mostra di Novecento (1925)
di Mario Sironi
“Tutti in Italia mi hanno voluto dimenticare: i Fascisti, perché ero Ebrea; gli oppositori del regime, perché ero fascista. Io, Margherita Sarfatti, sono nata nel ghetto ebreo di Venezia, la più giovane figlia della famiglia Grassinis. “Oh Dio” pregavo ogni mattina “fammi imparare ad essere felice e grata per tutte le belle cose che mi hai dato”. Essere felice, ad ogni costo: questo è stato il motto che ho ricordato a me stessa per tutta la vita.
All’età di 18 anni, sposai Cesare Sarfatti, un avvocato socialista anch’egli ebreo, più vecchio di me di 14 anni. Concepimmo insieme tre figli: Roberto, Amedeo e Fiammetta. Non contenti della vita di provincia di Venezia ci trasferimmo presto a Milano. Lì entrai subito nell’elite intellettuale e riuscii a ritagliarmi un posto in settori che solitamente erano prerogative degli uomini: il giornalismo e l’arte. Aprii il mio salotto della casa di Corso Venezia a tutti gli artisti della città, cercando di farmi reputazione da impeccabile ospite. Una specie di acuto senso olfattivo verso le persone talentate mi guidava. La mia casa divenne l’arena d’incontro dei futuristi prima e del movimento “Novecento Italiano”, che inventai io, poi.”
Membro del gruppo di Novecento sin dalla sua fondazione nel 1922, nel 1925 Sironi fa parte del Comitato Direttivo impegnato nell’organizzazione della Prima mostra del Novecento Italiano al Palazzo della permanete di Milano. Sironi si occupa di disegnare la locandina e il manifesto per la mostra del 1926. Tralasciando l’iconografia prevista in una prima versione mai realizzata, raffigurante il volto di un giovane, egli sceglie, per la versione definitiva del manifesto, una forma geometrica che ricorda sinteticamente il gesto del saluto romano e il profilo di un fascio littorio, ma anche una svettante architettura “moderna”, una sorta di arengario, con finestra e balcone per adunate di massa. Tale soggetto fu di difficile comprensione anche per il pubblico contemporaneo, tanto che la satira lo interpretò come un rebus da risolvere proposto ai visitatori della mostra.
Spostandosi nello studio
“L’incontro con la storia per me avvenne quando un giovane, sconosciuto giornalista chiamato Benito Mussolini fu nominato editore del giornale socialista l’Avanti, per il quale scrivevo nella sezione di critica d’arte. Lui era ai miei occhi un ardente socialista di provincia, un carismatico erotomane con un dono particolare: tenere gli ascoltatori attaccati alla sua narrazione, soprattutto me. Tra noi scoppiò l’amore e nonostante che in quel periodo non mostravamo ancora la nostra relazione in pubblico non facemmo nulla per nasconderla ai nostri rispettivi sposi.
La marcia su Roma, quella che impose il potere fascista alla nazione, la pianificammo insieme nella mia casa di Como. Furono i giorni più felici della mia vita. Quando poi mio marito morì, subito mi spostai a Roma e divenni per tutti: “L’altra donna del Duce”. A quel tempo la relazione tra noi era idilliaca: lui spendeva molto più tempo con i miei bambini che con i propri, e l’influenza politica che avevo sul partito era al massimo. Scrivevo articoli di giornale per lui, organizzavo l’organo del partito e in quegli anni compilai anche la sua biografia ufficiale che vendette milioni di copie in tutto il mondo.
Il fascismo mi attraeva, e come a me a molti ebrei, perché eravamo convinti che l’unità d’Italia, il risorgimento, per il quale le nostre famiglie di ebrei italiani avevano combattuto, non era completa. Mancava qualcuno che facesse sentire tutti gli abitanti della penisola Italiani allo stesso modo. Ebrei compresi. Speravamo nella fine di un’era e nella nascita di una nuova Italia. La mia generazione sarebbe stata la nuova Italia.
Dopo alcuni anni di serenità però un vento malato cominciò a soffiare su Roma. Io approcciavo i cinquanta anni, non ero più bella come un tempo e la mia sicurezza intellettuale si trasformò in despotismo. Il partito cominciò ad appoggiare idee folli, lontane dal fascismo che avevo progettato io – che invece ero l’unica ad aver saputo dare all’ideologia un tono veramente rivoluzionario e anti-retorico.
Il mio amante impaziente cominciò a rivolgere l’attenzione verso altre donne più giovani ma soprattutto il mio essere ebrea cominciò a disturbarlo sempre di più.”
Al secondo piano, di fronte al quadro di anonimo (fine seicento) rappresentante un paggio di colore che imbocca un cane
1. Le razze umane esistono.
2. Esistono grandi razze e piccole razze.
3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico.
5. E’ una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici.
6. Esiste ormai una pura “razza italiana”.
7. E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti.
8. E’ necessario fare una netta distinzione fra i mediterranei d’Europa (occidentali) da una parte e gli orientali e gli africani dall’altra.
9. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo.
10. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
All’interno del bagno della camera degli ospiti
“Fu l’inizio della fine. Venni messa sempre più da parte fino a che fui rimossa dalla mia posizione e bandita dallo scrivere nelle riviste delle quali avevo fatto la storia. Capii che il tempo di andarmene era arrivato. Così mi trasferii di nuovo nella mia casa Comasca ma dopo pochi mesi un parente m’inviò una normale cartolina tra le cui righe aveva scritto un messaggio, in inglese: “Stai attenta, sei controllata”. In un lampo feci le valigie e chiesi allo chauffeur di accompagnarmi in Svizzera. Portai con me tutta la gioielleria, le mie carte e un tesoro senza prezzo: 1,272 lettere d’amore, era la nostra corrispondenza – la polizza assicurativa della mia vita. Impaurita che potessero raggiungermi anche lì partii per l’Argentina, dove rimasi in esilio fino a guerra finita.
Quando tornai a casa, a inferno esaurito, l’Italia aveva già cancellato dalla memoria sia lui che la sua “altra donna”, cioè io. Solo i mie due figli, Fiammetta e Amedeo mi attendevano all’aeroporto di Ciampino.
Avrei voluto significare di più per l’Italia: essere ricordata come colei che finché era al suo fianco riuscì a far funzionare l’utopia moderna. Ma Mussolini aveva tradito la mia idea di fascismo. Il fallimento ci travolse, tutti, e io morivo da sola, sempre nella mia casa di Como, fedele fino alla fine, a me ed alla mia infelicità.”
Di fronte a L’amante morta (1921), di Arturo Martini
Fra le opere più significative del primo periodo dell’attività di Martini, l’Amante morta si colloca con assoluta originalità nel panorama artistico dell’epoca per la sua accesa policromia. L’uso del colore, spesso applicato in scultura con un intento di mimesi nei confronti della realtà, contrasta con il severo classicismo tipico dell’arte plastica contemporanea. La postura della donna, seduta, con le mani abbandonate in grembo e lo sguardo rivolto verso il cielo, evoca La fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini. Da tale modello purista L’amante morta si discosta, però, sia per il tema romantico della donna abbandonata dall’amante, sia stilisticamente per i riferimenti all’arte etrusca e per un quattrocentismo diversamente interpretato: evidenti i primi nella bocca socchiusa, rivisitazione del sorriso etrusco, il secondo nelle pieghe della veste e nella retina decorata che raccoglie l’acconciatura. Lo specchio e il libro aperto, con due fiori tra le pagine, cui la donna non presta più attenzione, sono i malinconici simboli di un amore ormai finito e di una vanitas che non ha più ragion d’essere: la morte si rivela così non una morte fisica ma interiore.
Spostandosi verso il salotto, passando per la biblioteca
Ma l’ordine è per sua natura una bestia anormale. Ci sono momenti nella storia che sembrano ripetersi ed alcune paure e ritorsioni morali tornare evidenti. Fu per quello che dopo la prima guerra mondiale, tramortiti ed esausti, in molti sentirono di voler guardare verso qualcosa di più conosciuto. “Quattrocento” e “Cinquecento” erano secoli che avevano lasciato nel mondo il segno di un’egemonia culturale Italiana. Perderla era doloroso, e così questi artisti riposero la loro energia nel ristabilire come forma d’innovazione un discorso vecchio, che mettesse la storia, la celebrazione aulica, al centro della loro composizione.
Ci sono momenti che sembrano similari tra i secoli: il potere s’instaura nella relazione privata tra uomo e mondo e influenza il presente. Ci sono stati tanti ritorni all’ordine, o fughe dal disordine, che ripetuti e ciclici si riaffacciano a verificare un passato che consola ma che non passa. La parabola infinita e finale di quest’atteggiamento si verifica così in due opposti: un’arte di propaganda e di regime che non ha nessun altro valore che non come documento storico, e poi un’altra che nel richiamo del classico trascende la contemporaneità per rimanere eterna.
Di fronte al Ritratto di Alfredo Casella, 1924, di Giorgio de Chirico
Alfredo Casella, che sulla scena musicale italiana fu esemplare rappresentante di quel ritorno all’ordine e al mestiere perseguito dallo stesso de Chirico a partire dagli anni dieci, fu un’importante figura di intellettuale e collezionista d’arte e mantenne stretti e produttivi rapporti con molti pittori. Il musicista, immortalato anche da Casorati, venne ritratto da de Chirico in due dipinti che pur d’impianto sostanzialmente analogo, si distinguono per alcune varianti. Questa versione presenta l’impostazione rinascimentale tipica dei ritratti di de Chirico del primo periodo: la figura di Casella si staglia su uno sfondo aperto – sotto un cielo luminosamente turbinoso – dal quale lo separano delle colonne e un cespuglio d’alloro, allusione alla gloria che toccherà al grande musicista. Il dipinto presenta inoltre evidenti debiti nei confronti di Arnold Bocklin, nume tutelare di de Chirico fin dagli anni della sua formazione per l’utilizzo della tempera su tela.
All’interno della veranda
L’estetica dell’ordine è una legge punitiva che richiama delle regole precise. Sono canoni applicati alla natura delle cose che aspirano alla suggestione piuttosto che all’istruzione. Questo ordine di pittori non faceva dell’analisi matematica o della geometrica della visione il punto di partenza, ne tanto meno di arrivo del loro lavoro. Per questo verrebbe da considerarli più all’avanguardia di chi cercò codici rappresentativi attraverso cubi e parallelepipedi. Ma che differenza c’è ad avere come modello una scultura africana piuttosto che un affresco di Giotto? Perché se si fa apologia dell’ordine si finisce col fare apologia del potere che lo comanda? Chi direbbe tra voi, qui, che la copia del classico non è avanguardia?
Il contrario dell’ordine non è il disordine. Il contrario dell’ordine è l’indisordinabilità. Il disordine infatti abita nell’ordine fin dall’inizio e gli appartiene intimamente: quanto più l’ordine è pieno e forte, tanto più stretto è il suo collegamento con il disordine. Disordine che ha sempre avuto per sua natura una concezione inorganica, da superare, perché è in realtà un elemento costitutivo dell’ordine.
Di fronte allo Studio per la sala P della Mostra della rivoluzione fascista
Questo studio è relativo al primo intervento architettonico realizzato autonomamente da Mario Sironi ovvero l’allestimento di quattro sale espositive per la Mostra della Rivoluzione Fascista, inaugurata a Roma. In alto, sopra lo schizzo, compare l’annotazione autografa “Marcia su Roma – istituzione Moschettieri” che pare assegnarlo al primo spazio concepito nel progetto allestitivo, la sala P. Su una parete sono raffigurate due camicie nere in marcia; Sull’altra parete si nota un gigantesco aeroplano su cui campeggia a caratteri cubitali la scritta “Balbo”. Tale iconografia, ricorrente anche nelle illustrazioni di Sironi, è spesso associata a quella dell’aquila – che nella realizzazione della sala P sorregge l’enorme scritta “Marcia su Roma” – e come questa rappresenta un simbolo dell’ascesa del fascismo. L’evocazione dell’ideologia è resa ancor più enfatica dal riferimento a Italo Balbo, allora ministro dell’Aviazione e, per le sue imprese eroiche, vero e proprio mito vivente.
“Io, Italo Balbo, sono nato in provincia di Ferrara in una famiglia dove vigeva il rispetto assoluto per la monarchia ed il servizio militare. Sin da piccolo ero circondato dalle tante dispute dialettiche che avvenivano nei bar di provincia tra monarchici e repubblicani e io presi presto posizione diventando uno tra i più radicali del Partito Repubblicano Italiano.
Quando alcuni anni dopo m’iscrissi al partito fascista, in realtà, lo feci soprattutto per motivi legati alla mia carriera. Le istituzioni e le ideologie che furono associate al partito – il totalitarismo, corporativismo, razzismo – mi erano del tutto aliene.
Ero uomo del fare e alla speculazione politica non davo molta importanza. “Azioni più che parole”, questo era il mio motto.
All’interno di quest’ambiente cominciai a organizzare gruppi di squadristi sotto il nome di Celibano, traduzione in dialetto del “cherry-brandy”, il mio drink preferito. Negli anni che seguirono feci utile servizio al partito con imprese contro vari anti-fascisti, spedizioni punitive, e un prologo della marcia su Roma che fu quella su Bologna. Non ero informato sui motivi, ma darci giù di mano mi divertiva assai. Mi piaceva fare ordine!
Nel frattempo, mentre la mia popolarità all’interno del partito cresceva, cominciai a interessarmi sempre di più all’aviazione. Presto presi a lavorare al suo sviluppo fino a diventare prima Generale di Squadra Aerea, poi Ministro stesso dell’Aeronautica.
Fu in quel periodo che organizzai la prima trasvolata oceanica, dalle Alpi, passando per Islanda, Canada fino ad ammarare a Chicago e poi a New York, dove mi fu riservato un trionfo senza precedenti a Broadway.
Al mio ritorno in Italia ero entrato nella leggenda, folle e folle di persone mi attendevano per adularmi. Ma questa mia popolarità, che cresceva troppo e troppo in fretta, a Mussolini piaceva sempre meno. Incominciò a ingelosirsi, vedeva in me un possibile attentatore alla diarchia Duce e Re. Fu così che mi promosse Governatore della Libia, un modo per allontanarmi dai poteri di Roma: un vero e proprio esilio.”
Si passa al pubblico l’immagine stampata su cartoncino delle sorelle Necchi sulla nave verso Tripoli con Balbo e si entra nella sala da pranzo
Nel soffito straordinari plafoni a stucco in bassorilievo da cui “si affacciano” animali, piante esotiche, segni zodiacali, stelle, e galeoni che rimandano a luoghi lontani, forse ai viaggi di cui i Necchi Campiglio erano appassionati. In questa immagine si vedono le sorelle Necchi, proprietarie di questa villa, ritratte in viaggio verso Tripoli, sul ponte del “Giulio Cesare”, e con loro c’è Italo Balbo, amico di famiglia e mito vivente per le imprese compiute come trasvolatore dei cieli.
“Nel frattempo Mussolini, dopo aver fatto per un anno il neutrale “pacifista” aveva deciso di fare la sua scelta: entrare nella mischia a fianco dell’alleato. Non appena seppi della scesa in campo mi precipitai in Italia per dissuaderlo a non mettersi con Hitler e non diventare prima o poi “il lustrastivale dei tedeschi”. La mia lamentela non fece presa. Così, infuriato con la gente del mio partito me ne tornai in Africa.
Avevo predetto che non sarebbe stata una guerra facile e breve. L’unico modo per uscirne vivi mi sembrava sbarazzarsi di Mussolini, prima che fosse stato troppo tardi. “Azioni non parole”, questo era sempre il mio motto.
Ma pochi giorni dopo, alle 5e30 del pomeriggio, mentre tornavo da una semplice ricognizione in territorio egiziano e approcciavo la fortificata base Italiana di Tobruk nel confine orientale della Libia, non lontano dal bordo egiziano, i gruppi anti-aerei italiani che proteggevano la base mi guardarono apprensivamente.
Pochi minuti prima del mio arrivo nove bombardieri inglesi, in gruppi da tre, avevano attaccato la base dall’Egitto e poi erano spariti in direzione del sole. Io lo sapevo ma non avvisai del mio arrivo. Per tutti i tiratori Italiani quell’aereo che ora approcciava la base dalla direzione del sole, contro sole, era il nemico che tornava. Per uno solo quell’aereo era l’aereo di Italo Balbo, da abbattere per ordine di Mussolini.
Proprio quel tiratore fu il primo a fare fuoco. Tutti gli altri seguirono. Fumo e fiamme. Il mio trimotore, un Savoia-Marchetti, precipitò sulla banchina del porto ed esplose.”
Di fronte al quadro Oreste ed Elettra, 1923, di Giorgio de Chirico
Oreste, la figura più ignara e inconsapevole della tragedia, si presenta ai nostri occhi con le mani ancora sporche di sangue; a terra giace un pugnale insanguinato e l’uomo, in preda a un disperato rimorso, si porta le mani al volto con un gesto che ricorda l’iconografia della Cacciata dal Paradiso. In forte contrasto con la figura del fratello, caratterizzata da una nudità che ce lo fa intuire vulnerabile, appare più ambigua la figura di Elettra, il cui corpo occultato dal presente panneggio rimanda alle figure, di bockliniana memoria, dei primi dipinti metafisici di de Chirico. Il volto torvo della donna e il suo pugno violentemente chiuso sembrano suggerirci che Elettra è ancora troppo concentrata nella vendetta ormai compiuta per poter lasciare spazio al pentimento.
Accompagnando il pubblico verso l’uscita
Oggi la domanda è se le cose rimangono sempre uguali o no. Mi giro intorno e tutto è ordinato, i pensieri, le categorie, le frasi, gli oggetti, i discorsi che ho fatto e che avete ascoltato, i ritmi creati e le narrazioni inventate. Tutto è stato ordine prestabilito. L’estetica della forma novecentesca sembra qui occupare uno spazio intermedio tra l’adulazione della forma e la sua demonizzazione, tra idolatria e iconoclastia. Questa forma, che ha trasceso la vita, è un ordine perenne, un legame indissolubile, una parentela opprimente ma presente. Infatti, quanto più il mondo esterno è senza senso, tanto più trionfa l’arte per l’arte, la retorica per la retorica, la forma per la forma.
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TEXT OF THE PERFORMANCE (ENGLISH):
Flight from disorder
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Patrizio Di Massimo
THE STORIES THAT YOU WILL HEAR DURING THIS GUIDED VISIT ARE BASED ON A FREE INTERPRETATION OF THE FACTS
Villa Entrance
It happened that a group of artist-friends in Milan were discussing Italian art and its traditions. One of them lingered to explain the unmistakable character of Italian plastic art over the centuries: during the Quattrocento, the Cinquecento and the Seicento.
“These untranslatable names, like the physiognomy of our nearest and dearest, are not just arithmetical numbers or vague terms used to designate periods each 100 years in length, but give substance to a tangible reality that exists in time and space. There is no listener so abstracted who, on hearing them, does not conjure up a dazzling and complete historical vision of the life of the spirit and mind of the time, even more so than of the political events. And, with regard to the spiritual life, this visualization embraces the life of art in particular, especially plastic creation”.
Another of the group of friends responded to this, saying, “I feel that in our century Italian painting will also prevail. It is my belief that the term Italian Novecento will resound throughout the world, today and in the future”.
This pleased the young avant-garde artists greatly, many of whom had been soldiers and continued to be so under Fascism, Italy’s military vanguard. And thus Milan saw the birth of the group of the “Novecento Italiano”, which used the name like a watchword. They were admonished for claiming the whole of the new century to themselves, though it had hardly begun. In fact, the artists wished only to proclaim themselves as Italians, traditionalists and modern at the same time. They proudly declared their desire to halt certain new aspects of artistic tradition in time.
In front of: Sketch for the poster of the first Novecento exhibition (1925)
by Mario Sironi
“Everyone in Italy wanted to forget me: the Fascists because I was Jewish, and the opponents of the regime because I was Fascist. I, Margherita Sarfatti, was born in the Jewish ghetto in Venice, the youngest daughter of the Grassinis family. ‘Dear God’, I prayed every morning, ‘help me learn to be happy and grateful for all the beautiful things you have given me’. Be happy at all costs: this is the motto I have repeated to myself all my life.
When I was eighteen, I married Cesare Sarfatti, a Socialist lawyer who was also Jewish. He was older than me by fourteen years. We had three children: Roberto, Amedeo and Fiammetta. Not content with the provincial life of Venice, we soon moved to Milan. There I quickly entered the circles of the intellectual elite and managed to carve out a place for myself in areas that were usually the prerogatives of men: journalism and art. I opened my drawing-room in the house in Corso Venezia to all the city’s artists in an attempt to create a reputation as a perfect hostess. A sort of acute sense of smell guided me towards the people of talent. My house became a meeting place for, first, the Futurists, then the movement that I later invented, the Novecento Italiano”.
Mario Sironi had been a member of the Novecento group from its foundation in 1922. In 1925 he became a member of the Managing Committee committed to organising the first Novecento Italiano exhibition at the Palazzo della Permanente in Milan, and was made responsible for designing the posters for the show held in 1926. Ignoring a previous design that was never printed, which showed the face of a young man, he instead chose a geometric shape suggestive of the Roman salute and the outline of a lictorian fasces, but also a “modern” building, a sort of communal palace, with a window and balcony for mass parades. The image was difficult for the public to understand and consequently satirists interpreted it as a rebus for visitors to the exhibition to solve.
Moving into the studio
“My encounter with history occurred when a young, unknown journalist called Benito Mussolini was appointed editor of the Socialist newspaper Avanti, where I used to write in the art section. To my eyes he was a fervent provincial Socialist, a charismatic erotomaniac who had a particular talent: that of keeping his listeners glued to his words, me in particular. Love flared up between us and although we did not show our relationship in public at that time we did nothing to hide it from our respective spouses.
Together we planned the march on Rome, the one that imposed Fascism on the country, in my house in Como. These were the happiest days of my life. When my husband died, I immediately moved to Rome and in everyone’s eyes became ‘the Duce’s other woman’. At that time our relationship was idyllic: he spent much more time with my children than with his own and my political influence over the party was at its height. I wrote newspaper articles for him, organised the party newssheet and during those years also drew up his official biography, which sold millions of copies around the world.
Fascism attracted me as well as many other Jews because we were convinced that the unification of Italy, the Risorgimento, for which our Italian Jewish families had fought, was not yet finished. What was missing was someone who would make all the country’s inhabitants feel the same, Jews included. We were hoping for the end of an era and the birth of a new Italy. My generation would have been the new Italy.
After several years of tranquillity, however, an ill wind began to blow over Rome. I was approaching my fiftieth year, I was no longer beautiful and my intellectual security turned to despotism. The party began to back crazy ideas, far removed from the Fascism I had planned, whereas I had been the only one to have given the ideology a truly revolutionary and anti-rhetorical tone.
My impatient lover began to turn his attention to other women, younger than me, but above all my being Jewish began to disturb him more and more”.
On the second floor, in front of the anonymous, late seventeenth-century painting of a black pageboy feeding a dog
1. Human races exist.
2. There are large races and small races.
3. The concept of race is a purely biological concept.
5. The influx of huge masses of men in historical times is a myth.
6. Today there is a pure “Italian race”.
7. It is time that the Italians proclaimed themselves openly racist.
8. A clear distinction exists between the European Western Mediterranean races on one side and the Eastern Mediterraneans and African Mediterraneans on the other.
9. The purely European physical and psychological characteristics of the Italian race should not be altered in any way.
10. Jews do not belong to the Italian race.
Inside the bathroom of the guest room
“It was the beginning of the end. I was set increasingly to one side until I was removed from my position and forbidden to write in the magazines whose success I had been responsible for. I understood that the time to leave had arrived so I moved back to my house in Como, but after a few months a relative sent me a normal postcard between whose lines a message had been written in English: ‘Take care, you’re being watched’. As quick as lightning I packed my bags and asked the driver to take me to Switzerland. I took with me my jewellery, my papers and a priceless treasure: 1272 love letters, it was our correspondence – my life assurance policy. Scared that they would be able to reach me even there, I left for Argentina where I remained in exile until the war was over.
When I returned home, to an exhausted hell, Italy had already erased from its memory both him and his “other woman”, that is to say me. Only my two children, Fiammetta and Amedeo, were waiting for me at Ciampino airport.
I would have liked to have meant more to Italy: to have been remembered as the one who, as long as I remained by his side, succeeded in making the modern Utopia work. But Mussolini had betrayed my idea of Fascism. Failure crushed us, all of us, and I died alone, still in my house in Como, faithful till the end, to me and to my unhappiness”.
In front of The Dead Lover (1921)
by Arturo Martini
One of the most important works of Martini’s first period, the Dead Lover stands out in the art of the period for the complete originality of its brilliant polychromy. The use of colour, which was often applied in sculpture with the purpose of imitating reality, contrasts with the strict classicism typical of the plastic art of the time. The posture of the seated woman, her hands in her lap, gazing up to heaven, is reminiscent of Lorenzo Bartolini’s Trust in God. However, the Dead Lover diverges from the purist model of Bartolini’s work in the romantic theme of the woman abandoned by her lover, and through the stylistic references to Etruscan art and a different interpretation of the iconography of the Quattrocento: the first is seen in the woman’s half-open mouth (a revisitation of the Etruscan smile) and the second in the folds of her dress and the decorated net that holds her hair. The mirror and open book – which has two flowers in its pages and which she ignores – are the sad symbols of a finished love affair and a vanitas that no longer has a raison d’être. The death in question is not physical but internal.
Moving towards the drawing room, passing through the library
By nature, order is an abnormal creature. There are moments in history that seem to repeat themselves and certain fears and moral blackmail that become evident. This is the reason why after World War I, stunned and exhausted, many felt the desire to look towards something with which they were familiar. The “Quattrocento” and “Cinquecento” were centuries that had left the mark of Italy’s cultural hegemony on the world. To see that pass was painful and so these artists devoted their energy to reinventing an old theme, one that might allow history and the celebration of the divine to be set at the centre of their compositions.
There are moments in different centuries that seem bear parallels with one another: power becomes established in the private relationship between man and the world and casts its influence on the present. There have been so many returns to order or flights from disorder that, repeated and cyclical, they reoccur to attest to a past that consoles but which does not pass. The infinite and final trajectory of this pattern is seen in two opposites: an art used for purposes of propaganda and propping up power that has no other value than as historical documentation, and an art that, by harking back to classicism, transcends contemporaneity and thus remains eternal.
In front of the Portrait of Alfredo Casella (1924)
by Giorgio de Chirico
Alfredo Casella was a figure on the Italian music scene who was a perfect example of the return to order and to the profession followed by de Chirico himself from the 1910s. An important intellectual and art collector, he was closely and productively connected with a number of painters. Painted also by Casorati, Casella was portrayed by de Chirico in two works that, despite being essentially similar, differ in certain respects. This version shows the Renaissance formulation typical of the portraits de Chirico painted during his first period: Casella is seen against an open background – beneath a bright swirling sky – from which he is separated by columns and a laurel bush, an allusion to the glory that would come to the great musician. The painting demonstrates de Chirico’s debt to Arnold Böcklin, the Italian painter’s tutelary deity from his earliest years due to the Swiss painter’s use of tempera on canvas.
Inside the veranda
The aesthetics of order is a punitive law based on precise rules, tenets applied to the nature of things that are suggestive rather than instructive. This order of painters made neither mathematical analysis nor the geometry of vision either the point of departure or arrival of their work, and thus they might be considered more avant-garde than those who made use of cubes and parallelepipeds as representative codes. But what difference is there between having an African sculpture as a model and a fresco by Giotto? Why is it that those who defend order end up defending the power that controls it? Who among you here would claim that copying the classics is not avant-garde?
The opposite of order is not disorder. The opposite of order is undisorder / undisorderability, that which cannot be disordered. Disorder has inhabited order from the very start and is an intimate part of it: the greater the strength and fullness of order, the tighter its link with disorder – disorder that, by its very nature, has always been unsystematic and thus to be prevailed over, because it is in fact a constituent part of order.
In front of the Study for Room P of the Fascist Revolution Exhibition
This study is linked to the first architectural project carried out independently by Mario Sironi: the fitting out of four display rooms for the Fascist Revolution Exhibition, which opened in Rome. At the top, above the sketch, is the handwritten annotation “Marcia su Roma – istituzione Moschettieri”, which suggests it was a study for the first space conceived in the project, Room P. On one wall two blackshirts are shown marching. On another wall a giant aeroplane bears the name “Balbo” in block capitals. This iconography is recurrent in Sironi’s illustrations and often associated with the image of an eagle (which in the Room P design supports the enormous inscription “Marcia su Roma”); both the aeroplane and the eagle are symbols of the rise of Fascism. The evocation of the Fascist ideology is made even more emphatic by the reference to Italo Balbo, the then Minister of Aviation and, due to his heroic deeds, a living myth.
“I, Italo Balbo, was born in the province of Ferrara to a family in which respect for the monarchy and military service was absolute. From the time I was very young I was surrounded by the many dialectical arguments that took place in the local bars between monarchists and republicans. The position that I soon adopted made me one of the most radical members of the Italian Republican Party.
When, several years later, I joined the Fascist party, I did so primarily for reasons linked to my career. The institutions and ideologies associated with the party – totalitarianism, corporatism, racism – were completely alien to me.
I was a practical man and did not give much importance to political speculation. ‘Actions not words’ was my motto.
Within this framework I began to organise Fascist action squads under the name of Celibano, a translation in dialect of my favourite drink, cherry brandy. Over the years that followed, I made myself useful to the party with actions taken against anti-Fascists, punitive expeditions, and a prologue to the march on Rome in the form of a march on Bologna. I was not very well up on the reasoning that lay behind them but getting stuck in physically was very enjoyable. I liked creating order!
In the meantime, as my popularity in the party grew, I began to become more and more interested in aviation. Soon I began work on developing it and eventually became Air Force Marshal and then Minister of Aeronautics.
This was when I organised my first transoceanic flight, starting in the Alps, then passing through Iceland and Canada, stopping in Chicago and then New York, where I was given a triumphal welcome on Broadway.
When I got back to Italy, I had become a legend and was cheered by waiting crowds. But my popularity grew too quickly and became increasingly annoying to Mussolini. He began to get jealous and saw me as a possible threat to the diarchy of Duce and King. So I got promoted to being the Governor of Libya, a way to get me away from the power in Rome. It was a veritable exile”.
The public is handed the picture printed on card of the Necchi sisters with Balbo on the ship heading for Tripoli, then enter the dining room
Extraordinary stucco low reliefs on the ceiling feature animals, exotic plants, signs of the zodiac, stars and galleons, perhaps referring to far-off places and the journeys that the Necchi Campiglio family were so thrilled by. In this picture we see the Necchi sisters, who owned this villa, on the bridge of the “Giulio Cesare” on their way to Tripoli. They are in the company of Italo Balbo, a friend of the family and living legend for his long-distance flights.
“During the year he spent as a neutral ‘pacifist’, Mussolini made his decision: to enter the war on the side of his ally. As soon as I learned that he was going to war I hurried to Italy to dissuade him from throwing in his hand with Hitler and, sooner or later, becoming the Germans’ bootlicker. My pleas had no effect. So, furious with the members of my party, I returned to Africa.
I had predicted it would not be an easy or short war. To me it seemed that the only way to come out of it alive was to get rid of Mussolini before it was too late. ‘Actions not words’ was still my motto.
But a few days later, at 5.30 in the afternoon, as I was returning from a simple reconnaissance flight over Egyptian territory and approaching the Italian fortified base of Tobruk on Libya’s eastern frontier, not far from the Egyptian border, the Italian anti-aircraft units who were protecting the base regarded my plane apprehensively. A few minutes before my arrival nine British bombers had attacked the base in groups of three from Egypt and then disappeared in the direction of the sun. For all the Italian gunners, the plane approaching the base from the direction of the sun, i.e., from Egypt, was the enemy returning. For one of them alone it was the plane of Italo Balbo, which, on the orders of Mussolini, was to be brought down.
It was that gunner who was the first to fire. All the others followed. Smoke and flames. My three-engined plane, a Savoia-Marchetti, crashed onto the harbour wharf and exploded”.
In front of the painting of Orestes and Electra (1923)
by Giorgio de Chirico
Orestes, the figure most unaware of the tragedy, is shown to us with his hands still red with blood. A bloody dagger lies on the ground as the man raises his hands to his face with desperate remorse in a gesture similar to the iconography in Expulsion from the Garden of Eden. Contrasting strongly with the figure of Orestes, whose nudity suggests his vulnerability, his sister Electra appears more ambiguous. Her body hidden by drapery is reminiscent of de Chirico’s earliest metaphysical figures, which reveal the influence of Böcklin. The woman’s grim face and violently closed fist seem to suggest that Electra is still too heavily involved in the vendetta to feel contrition.
Accompanying the public to the exit
Today the question is whether things always remain the same or not. I look back and everything is ordered – the thoughts, categories, sentences, objects and the talks I have given and you have listened to, the rhythms created and the invented narratives. It has all been a pre-established order. The aesthetics of the Novecento form seen here seem to fill an intermediate space between the adulation of form and its demonization, between idolatry and iconoclasm. This form, which has transcended life, is a perennial order, an indissoluble link, an oppressive but present connection. The more the external world is without sense, the greater the triumph of art for art’s sake, rhetoric for rhetoric’s sake, form for form’s sake.